Robi


 

Robi
Racconto di Valter Fiore

Fuori, la giornata doveva essere agli sgoccioli, perché se ne erano ormai
andati quasi tutti spegnendo le luci, e presto quel posto sarebbe
sprofondato nel buio: un buio rotto solo dai lamenti, dalle grida, dalle
bestemmie di qualcuno che andava fuori di testa.

Robi aveva una quarantina d'anni; era una donna esile, che portava sul volto
i segni di una passata bellezza. Ma era malata, respirava sempre più a
fatica, tossiva e ogni volta sembrava che le si spaccassero quei poveri
polmoni. Non mangiava quasi niente da tempo e quel suo corpo minuto si era
fatto sempre più scarno; il volto solcato da rughe innaturali che non erano
dell'età. In quel posto da mesi non le facevano più niente, la lasciavano in
quella cella da sola tutto il giorno, le portavano un po' cibo e basta. Di
giorno vedeva un pezzo di corridoio e qualcuno che passava, di notte era
solo il buio. Ora più niente, ma prima, quando era più giovane, quasi ogni
giorno la trascinavano in un'altra stanza e gli facevano delle cose che lei
non capiva, che a volte le facevano male da urlare e altre volte no.

C'erano tante ragazze come lei in quel posto, a volte si incrociavano e si
scambiavano uno sguardo fugace quando gli sbirri le prendevano per portarle
in quella stanza: ma solo uno sguardo era permesso, nulla di più. E poi cosa
mai avrebbero avuto da dirsi? Robi non aveva la percezione del tempo come
non l'aveva della sua stessa vita, non sapeva quasi parlare, non sapeva
correre, non sapeva niente. Era nata in una specie di orfanotrofio, dove era
cresciuta senza una madre, con dei fratellini che poi non aveva mai più
visto e che ora nemmeno ricordava più. Poi, ancora adolescente, l'avevano
portata li dentro, in una di quelle celle tutte uguali a invecchiare e
marcire. Per tutta la vita non aveva visto altro che quelle pareti,
quell'altra stanza piena di attrezzi strani e quegli individui che di tanto
in tanto la prendevano, la scrutavano, la toccavano, le mettevano delle cose
in bocca o le piantavano degli aghi nel corpo: e basta.

Non c'era niente nella sua vita: niente presente, niente futuro né passato.
Robi era un corpo in cui il sangue circolava, che si alimentava ed evacuava,
che soffriva le sue tempeste ormonali, che quando poteva dormiva. Non
pensava perché non c'era nulla a cui pensare, nulla che potesse desiderare
se non che la lasciassero stare, che non venissero a prenderla per portarla
di nuovo in quella stanza dove le facevano quelle cose di cui aveva tanta
paura.

Non sapeva niente della vita, non sapeva cosa fossero il vento o la pioggia,
né tantomeno cosa mai fosse l'amore, o meglio ricordava una sofferenza
strana, un bisogno fisico che non capiva e non riusciva a calmare e che la
faceva star male per giorni; che passava per poi ricominciare di nuovo. No,
della vita qualcosa conosceva: lo star male, il soffrire, l'aver paura di
quello che poteva succederle ogni giorno, in ogni momento.

I giorni belli erano quando non stava male e poteva starsene rannicchiata
tutto il giorno in un angolo della sua celletta a seguire il volo insensato
di una mosca, ad appisolarsi, a riaprire gli occhi, cercando un sogno che
non poteva esserci perché non aveva nulla da sognare.

Eppure Robi era bella, era davvero bella a saperla guardare in quegli occhi
insieme di donna e di bambina. Era bello il suo incedere fragile su quelle
gambe magre, i suoi piccoli seni stanchi, il suo volto segnato; era bello
pensare come la sua bellezza non si fosse arresa a quell'incubo infinito.

Quella notte se ne stava sdraiata a guardare il nero del soffitto, senza che
un pensiero solcasse quel vuoto: solo la sua maledetta tosse a scandire le
ore che passavano. Non lo sapeva ancora, ma quella notte sarebbe stata
l'ultima in quel posto. L'indomani sarebbero arrivate delle persone che
l'avrebbero portata via da lì.

... ... ...

*Non è l'incipit di un romanzetto di fantascienza, o il tentativo maldestro
di riscrivere "Il Castello": questa storia è tutta vera, solo che Robi non è
una donna ma una gatta che ha vissuto più di metà della sua vita in un
laboratorio di sperimentazione. Robi è una gatta fortunata perché molte
delle sue compagne di sventura escono solo dal camino (si, e' una
citazione), senza mai aver visto la luce del sole o corso in un prato.

Non sono capace di pensare a cosa può essere una vita senza aver nulla a cui
poter pensare, senza poter vedere nulla del mondo altro che le pareti di uno
stabulario; non mi e' possibile immaginare una vita in cui le uniche
sensazioni siano la paura, la noia e la sofferenza. La vita degli animali
"da sperimentazione" e' tutta lì: nascono già malati (modificati
geneticamente), o vengono infettati apposta, come è successo a Robi e alle
sue compagne, vengono usati come materiale di consumo del valore di poche
decine di euro, e poi semplicemente si buttano via come vuoti a perdere,
come rifiuti speciali.

Le immagini strazianti di G. Berengo Gardin, di quegli esseri sprofondati
nell'atroce follia dei manicomi sono forse l'immagine più vicina di quello
che può essere un laboratorio: lì non ci sono i muri scrostati e i cessi
luridi, ma gli occhi degli animali rinchiusi ci raccontano la stessa
sofferenza, la paura, l'abisso in cui venivano sprofondati quei disgraziati:
abbandonati da tutti, maltrattati, violentati e umiliati per la colpa di non
essere normali gli uni, per la colpa di non essere umani gli altri.*

...Oddio il cielo! Oddio la luce del sole, l'aria fresca di aprile! Oddio i
colori, gli odori, lo spazio libero! Attraverso la grata del trasportino
vedeva quel ben di dio e non si poteva capacitare, non sapeva se averne
paura o gioire.

Poi un lungo viaggio in macchina: faceva caldo, aveva sete, doveva fare pipì
ma non le importava; gli occhi spalancati a rincorrere gli alberi che
fuggivano via veloci dai finestrini dell'auto, il sole che l'accecava, il
buio di una galleria e il rimbombo del motore, e poi di nuovo il sole e la
luce.

Arrivò in un posto bellissimo; un grande prato pieno di gatti che
gironzolavano liberi, con gli alberi e tante piccole casette come in una
fiaba che nessuno le aveva mai raccontato. Ciotole colme di pappa, l'erba,
la ghiaia, e quella ragazza che se la teneva tra le braccia, le passava e
ripassava la mano sulla testa e sulla schiena, le sfiorava il nasetto
caccoloso con le labbra. Le parlava e le diceva cose che ancora non capiva,
come con capiva che quelle erano carezze e baci; non capiva, ma le piacevano
quei gesti così diversi dall'essere afferrata, costretta, immobilizzata.

*Che bello vedere altri gatti come lei, annusarsi, andare in giro con il suo
passo incerto: e poi quegli altri animali così diversi da lei che non aveva
mai visto prima: quel transatlantico di Claretta (una maialona che non e'
diventata prosciutto), i caproni, i cani, le oche, e quei ragazzi che
venivano a portare il cibo, che non facevano mai mancare l'acqua, che davano
una pulita, ...mica come dov'era prima che se ne fregavano di tutto. Anche
quella ragazza bruna veniva a farle delle punture, come succedeva là, ma era
tutta un'altra musica: per quanto fosse abituata non le piaceva farsi
sbucherellare, ma qui c'erano le carezze e le parole dolci, e poco alla
volta anche lei aveva imparato a fare come tutti gatti quando sono contenti:
a sei anni aveva imparato a fare le fusa.

Robi e le altre furono salvate grazie all'impegno di alcuni attivisti, dopo
defatiganti, infinite trattative condotte sempre sul filo della rottura;
furono portate fuori e affidate a un rifugio per la riabilitazione e di lì,
dopo le prime cure, date in affido. Non era stato facile trovare persone che
potessero e volessero prendersi cura di gatte difficili, cuccioli di sei
anni, con una malattia infettiva che non avrebbe forse lasciato loro molto
da vivere.

Quella volta ne salvarono una dozzina: niente;* solo in questo paese ogni
anno quasi un milione di animali (cavie, topi, ratti, cani, gatti, pecore,
scimmie....) vengono messi al mondo o catturati in natura per essere
rinchiusi
in gabbia, usati per esperimenti spesso senza anestesia e alla fine uccisi.*

Io non sono un medico né un veterinario né un biologo, ma voglio lo stesso
parlare di vivisezione, e credo di averne il pieno diritto - e dovere.
Voglio parlarne perché ogni giorno ho davanti agli occhi il risultato vero
di quegli esperimenti: quell'esserino che dimostra il triplo dei suoi anni,
che ha bisogno di attenzioni e cure continue, per cui ogni giorno ringrazio
il cielo che è viva.

"E' indispensabile per la scienza, per il progresso, per la cura delle
(nostre) malattie": questo è il ritornello dei vivisettori. "Gli animali li
trattiamo bene", "non soffrono" ...sperimentassero su se stessi se non si
soffre! Questo dicono i vivisettori, falsano numeri che pure sono pubblici,
non dicono che sperimentano anche su cani e gatti (e altri animali) ma solo
sui topi che non piacciono a nessuno: tranquillizzano, edulcorano,
minimizzano per poi immergersi di nuovo nel silenzio di quei laboratori
chiusi e inaccessibili. Ci sono infinite dimostrazioni che il modello
animale non è predittivo in tossicologia, in farmacologia, nella ricerca di
base; ci sono libri autorevoli e documentati zeppi di citazioni da riviste
scientifiche che raccontano gli orrori e l'incredibile idiozia di centinaia
di esperimenti. C'è di che convincersi sul piano razionale che la
sperimentazione è una strada sbagliata, che rallenta il progresso anziché
accelerarlo, che serve solo a un'industria, e una ricerca asservita, che
pone al centro dei suoi interessi il business della salute.

E le alternative ci sono: si chiamano banche dei tessuti, studi in vitro,
simulazioni al computer, microdosaggi in tossicologia; e sopratutto la
ricerca clinica, l'unica vera ricerca, che non fa male a nessuno e che nel
corso dei secoli ha dato davvero dei risultati importanti. Le alternative ci
sono e se ne possono sviluppare altre, se solo si volesse, se si investisse,
se l'obiettivo fosse il progresso e una medicina che cura davvero e non
serve solo a fare soldi.

Ma se davvero possono dimostrare di essere quei paladini del bene e del
progresso che professano di essere perché tacciono? Perché non fanno
visitare i loro laboratori? Provate a cercare un sito, un luogo di confronto
qualunque in cui si difendano le ragioni della sperimentazione sugli
animali: io non l'ho trovato!

Robi è qui vicino a me, che passeggia sulla tastiera avanti e indietro e con
la sua codina striminzita mi fa sempre cadere gli occhiali; tossisce, ha il
naso che le cola, ma mi fa le fusa tutta contenta. La guardo, e in quello
sguardo ci sono gli sguardi delle migliaia di animali che ogni giorno
vengono infettati, avvelenati fino alla morte, maltrattati e umiliati;
ascolto il suo respiro affannato, e sento lo squittiire, il guaire, i
miagolii di tutti quelli che sono ancora la dentro e non usciranno che dal
camino.

Troveranno la cura del cancro e ci faranno vivere, giovani e belli fino a
cent'anni? No, non lo faranno, sapranno solo far guarire i topi dal cancro
(forse). E comunque mi dispiace, ma a questo prezzo no, non me ne frega
niente!
Valter Fiore

Alcuni link di approfondimento e per l'adozione di animali da laboratorio

www.novivisezione.org

www.vitadacani.org

www.vitadatopi.net*

 






 

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